Una robusta struttura costruttiva e insieme una raffinata esplosione spaziale sono alla base di molte opere di Piergiorgio Colombara che ha saputo, sin dai suoi inizi, valutare il “peso” che nella scultura riveste la leggerezza. Infatti molte delle opere esposte, nell’ampio e frastagliato invaso della Borsa di Genova, sono costituite da ampie costruzioni spesso molto complesse per la contemporanea utilizzazione di materiali diversi: bronzo, rame, vetro…. ma che non gremiscono lo spazio della sala, ma anzi lo valorizzano dando all’ambiente severamente professionale la parvenza di una leggiadra foresta metaforica.
Ho detto “leggiadra” perché molti dei “cicli” realizzati da Colombara: i “pendoli” e “acquasantiere”, le “urne”, tutta la serie “exbronzo” e gli pseudoistrumenti musicali, presentano la caratteristica di offrire sempre la valenza “aerea” della scultura: lo spazio esterno e quello interno quasi sempre sono unitari sicchè la struttura metallica, nelle sue volute spesso acrobatiche, non lo offende o ingombra mai; anzi lo potenzia. Si vedano, ad esempio, ma i casi sono tantissimi – opere come “Caminetto senza suono”, “L’audace carena”, Casamata ecc..
Mentre anche nei lavori più “densi”, dove il metallo primeggia sullo spazio, si può constatare la presenza di quelle aeree strutture che contrastano con i materiali impiegati. E a questo proposito vorrei ricordare lo strano e insolito effetto causato da alcuni lavori dove il metallo (bronzo) viene “ridotto” a un leggiadro tessuto metallico attraverso una tecnica (comparabile a quella di “cera persa”) dove dei tessuti autentici, con le loro smagliature e le loro lacune, vengono fusi nel bronzo che ne assume la parvenza così lontana dalla solidità e compattezza del metallo.
È questo contrasto tra metallo e spazialità aerea, spesso abitata da filamenti e “ricami metallici”, a creare quella “titubanza percettiva” che, a mio avviso, costituisce uno dei maggiori fattori enigmatici nell’opera di Colombara; tanto nelle grandi opere come “Plunbatarum”, “L’angelo”, “Mulino”, tanto in quelle più minute come le “Urne”.
E, naturalmente, la sensibilità “tattile” oltre che visiva e dinamica è quella che gli permette di coniugare la delicatezza del vetro con la rigidità del bronzo o del ferro e di far sì che le corde in ottone e la sottile sagoma vitrea di “Senza suono” finiscano per emettere un suono inaudibile, proprio per quello che ci si presenta come un vero istrumento d’una musica astrale.
Sarebbe sin troppo facile giocare con l’aspetto metaforico di molte delle opere presenti a questa rassegna genovese; e credo, in definitiva, – evitando le vacue elucubrazioni pseudofilosofiche purtroppo in auge presso tanti nostri critici che una delle maggiori conquiste nel lungo percorso del suo lavoro sia proprio quello di aver reso solidi e tangibili molti di quei “tropi retorici” che di solito si individuano soltanto nel linguaggio letterario e poetico e che, invece, troviamo qui resi palpabili nella felice comunione tra la forma plastica e i titoli dei lavori che la incarnano.